In un liceo privato del New England, durante le vacanze di Natale dell’anno 1970, un insofferente studente, un peculiare insegnante di storia antica e la cuoca della scuola si trovano a dover trascorrere forzatamente le feste insieme tra le mura del college. Questa è la semplice trama del film “The Holdovers – Lezioni di vita”  con la regia di Alexander Payne e la sceneggiatura di David Harmington che, sebbene abbia una sinossi all’apparenza scontata, nasconde un grande spessore narrativo e cinematografico. I tre protagonisti del film sono gli “holdovers”, letteralmente i “residui”: residui non solo dallo svuotamento delle mura del college durante le feste natalizie, ma anche – e soprattutto – residui della società statunitense dei primi anni settanta. La loro convivenza dà vita ad un dialogo triangolare che si configura come una ricerca esistenziale che arricchisce gli animi e smussa le rigidità dei protagonisti. L’impostazione narrativa è capace di trattare contemporaneamente le peculiarità emotive dei tre protagonisti accomunati da un profondo malessere esistenziale che, seppur con esiti diversi, si dimostra essere causato in ognuno dei tre casi dalla crisi dei valori della società americana, che esprime in questo film tutta la sua ipocrisia e ambiguità. The Holdovers è infatti un film complesso e stratificato di significati e messaggi valoriali (da qui infatti il sottotitolo italiano “Lezioni di vita”) che, benché affliggessero una società lontana cinquant’anni da noi, si mostrano tuttora scottanti e coerenti, rendendo dunque il dialogo degli holdovers sintonizzato presso lo spettatore di oggi. L’ambientazione “vintage” non è dunque solo mera contemplazione, ma è una parte proattiva del film che rende di conseguenza estremamente calzante anche la scelta cinematografica di una pellicola che sembra uscita da una cinepresa degli anni settanta. Un ritorno alle origini che si configura in questo caso come innovazione, riprendendo del cinema anni settanta non solo desaturazione dei colori e il formato della pellicola in 35 mm ma anche tecniche di ripresa e post produzione che oggi vengono scarsamente utilizzate.

Temi come il classismo, il confronto tra generazioni, il razzismo e il malessere psicologico si intrecciano nella pellicola dando vita ad un impianto apparentemente intricato, ma nell’atto pratico perfettamente organico e coerente regalando protagonisti dal grande spessore umano e narrativo. Il burbero professor Hunham (interpretato magistralmente da Paul Giamatti) è obbligato dal sistema accademico del college ad assolvere l’ingrato compito di guardiano dei ragazzi rimasti a scuola durante le feste e seppur dia l’impressione di essere un uomo fermo nelle sue convinzioni e rigido nel suo tradizionalismo, alla fine del film mostra una profonda mutazione operata principalmente attraverso il rapporto con lo studente Angus Tully (interpretato dall’esordiente Dominic Sessa); rapporto che in alcune scene dimostra di avvicinarsi maggiormente ad un rapporto padre-figlio, piuttosto che a quello di insegnante-professore.

Angus vive lo sconforto di una famiglia spezzata, amplificato dal disinteresse della madre nei suoi confronti; inoltre fa esperienza di continue vessazioni generate dal classismo che impregna aridamente ogni studente del liceo che frequenta. Anche se non viene mai esplicitato è probabile che il ragazzo viva anche una profonda depressione determinata inevitabilmente dalle suddette circostanze. Le interazioni di Angus e il professore sono spesso mediate dalla terza protagonista: la cuoca Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph) che vive angosciosamente la recente perdita del figlio nella guerra del Vietnam. Mary Lamb incarna quell’aspra critica del regista al razzismo ipocrita del sistema americano che portava a morire presso i fronti del Vietnam i figli delle classi sociali più basse, disilludendo dunque quell’agognato “sogno americano” che tradisce Mary così come il sistema scolastico tradisce il professor Hunham e la famiglia tradisce Angus. Ognuno dei protagonisti sente crollate le proprie fondamenta esistenziali che vengono ricostruite tramite il loro rapporto che va progressivamente ad identificarsi sempre di più con quello di una famiglia che si ritrova durante le feste natalizie. In “The Holdovers” nessuno si pone in posizione di rilievo rispetto agli altri: non ci sono vincitori o perdenti ma solo uomini e donne soli, feriti dall’asprezza della vita che si incontrano senza cercarsi e che hanno la capacità di sapersi ascoltare reciprocamente. Un film dolceamaro che regala preziose lezioni di vita a chi può mettersi nella condizione di riceverle.