Sono le sei del mattino, vengo svegliato dal canto del gallo. Oddio, se proprio debbo ammetterlo, più che un canto è un fastidioso rumore prodotto da un pennuto, ma in tutta onestà, mi sono abituato a questo rumore, e se un domani non ci fosse, mi mancherebbe la sua compagnia. Il sole entra dalla finestra, in maniera delicata: le tende di pizzo ricamate ne affievoliscono l’intensità. Fuori c’è l’odore del pane. Adoro l’odore del pane appena sfornato, mi chiedo a che ora si è alzata mia nonna per iniziare le faccende di casa se alle sei, sta già sfornando le file. Mentre mi rigiro nelle coperte, vengo avvolto da un senso di pace. È sabato, ho tutto il tempo per vivere la giornata ai ritmi di un essere umano. Scendo dopo un’ora a fare colazione, saluto i nonni e gli zii. È come nelle finte pubblicità delle merendine, sembra tutto perfetto. Una casa calda, un clima disteso, la campagna, la tranquillità e la pace. Con lo zio si va in paese a comprare il giornale: saluta tutti, tutti si conoscono. Che bei sorrisi, così, spontanei. La bellezza raccolta nella parola “buongiorno”. E si passa la giornata, fra una passeggiata e una chiacchera, fra una partita a carte e un gelato, fra la raccolta delle more dai rovi delle strade imbrecciate, all’udire dei belati delle pecore che pascolano libere, senza recinzioni, da una collina a un’altra, accompagnate dal cane: il pastore è nel casale a svolgere i suoi compiti, ma sa che il suo fedele compagno a quattro zampe, svolgerà un egregio lavoro. E arriva la sera. Si raduna la famiglia intera, genitori inclusi, e ci si appresta a finir la notte. Saluto i nonni, gli zii, torno a casa con i miei, credendo sinceramente di essere fortunato e che nulla mi manca. Ventotto anni dopo scrivo questo articolo. Sono a Macerata, disteso sul letto di un appartamento. Non sono nel mio paese di origine, né nella mia regione. Ho un automobile che costa quanto una casa, un orologio che potrei barattare per una moto, un ottimo impiego da oltre dieci anni, un guardaroba folto. Sono inebriato dall’odore del profumo dalla limitata produzione e dalla scarsa reperibilità, al tabacco rosso, incenso e legno. Domattina mi sveglierò come tanti altri. Il gallo non canta. In verità non me lo ricordo più. Mi manca. Quel rumore proprio non lo ricordo. Non c’è l’odore del pane appena sfornato a far produrre al mio cervello la serotonina, ne il corpo esile della nonna che esce dalla rimessa degli animali, diretta verso casa a preparare la colazione. Ci sono solo io, le mura coibentate e il gres porcellanato. Mentre mi lavo il viso nel silenzio più totale, compio la solita routine di gesti che mi porteranno a lavoro: attacco fra venti minuti e già ho ricevuto sei telefonate. Ventisei anni fa non esistevano i cellulari. E come un topo accodato con i miei simili, con il mio appartamento su ruote che al pari dei tombini, deve fare la fila, senza poterla saltare ne evitare, entro in ufficio a svolgere il mio compito carico di responsabilità. Fuori non c’è il verde, ne gli animali. Non so più come è fatto un rovo, mi ricordo a mala pena delle more. E mentre la giornata passa, i compiti svolti, mi accingo a lasciare l’ufficio. È ora di rientrare in casa, solo. Apro il frigorifero, cucino la cena, lavo i piatti, mi eclisso davanti alla pay-tv. Non ho più voglia di leggere, voglio solo essere intrattenuto, ma non troppo: domani dobbiamo essere produttivi. Attendo il fine settimana per poter dilapidare il tempo fra bar, ristoranti e locali notturni. Ma con parsimonia. Dopotutto devo accumulare ancora per far naufragare l’animo nel prossimo costosissimo orologio, lo straripante guardaroba e l’ennesima casa con le ruote. Cos’è la felicità? Di cosa abbiamo bisogno? Cos’è il calore umano? Quale il senso della vita? Siamo il nostro lavoro? Il nostro conto corrente? Le cose che abbiamo? O è il nostro lavoro, conto e cose che ci posseggono? Dov’è finita la nostra umanità? Dov’è il senso di fratellanza? Dov’è finita la gioia di incontrare il migliore amico? Dov’è andata la felicità di correre dietro ad un pallone? Nasciamo, cresciamo, moriamo. Ci hanno fatto credere che non avevamo niente. Ci rendiamo conto che avevamo tutto. Così fu scritto da Jacopo Andrea Fagioli.