Non ce la faccio. Mi ero ripromesso di non fare polemica ogni volta che prendo la penna in mano, di non guardare tutto con cinismo, di non criticare ciò che da tutti è stato accettato. Ma non ce la faccio. Perché la cosa è così sotto agli occhi di tutti che, al sol pensiero di far finta che vada tutto bene e che questa sia la normalità, mi viene l’orticaria. Non ce la farò mai a capire per quale assurdo motivo qualunque tipo di costruzione che sia adibita ad uso popolare sia brutta, anzi orribile: non capisco perché debba proprio fare schifo! Sfilate di alveolari messi uno di fianco all’altro, dove le persone non vivono: si ammucchiano. Formicai dove gli inquilini non si conoscono, dove nei quartieri più degradati i pilastri e le travi di cemento diventano il seme che farà germogliare le organizzazioni criminali. Palazzi che creano ecosistemi di leggi a parte, dove per salire le scale dell’atrio devi pagare dazio, dove la rampa B è da evitare, in quanto si accede al piano della cocaina, e se ci abiti non puoi rifiutarti di pagare qualcuno che ti consenta di accedere alla tua cuccia senza avere problemi. Edificazioni di calcestruzzo dove da un lato non c’è mai il sole, o dove l’ombra di un monolite tiene all’oscurità il suo gemello costruito di fianco, con la strada principale che passa a pochi metri più avanti creando un rumore assordante di motori e clacson. La descrizione di case popolari potrebbe essere: “edificio quanto più brutto da realizzare, atto alla pubblica derisione di chi ci abita, inserito in un contesto urbano degradato e in quartieri abbandonati a se stessi”. Ma la domanda che mi pongo sempre è la stessa: perché? Perché chi progetta case popolari lo fa quasi sempre nella maniera più vigliacca? Perché non hanno mai una parvenza di una casa accogliente? Quelli che ci vivono all’interno, non sono cittadini della stessa nazione? Non sono persone che hanno la stessa dignità di chi un affitto e un mutuo riesce a pagarlo? Non sono al pari degli altri, anch’essi, esseri umani? Il sistema del “te la stiamo omaggiando quindi fattela bastare” non mi sta bene. È riprovato che l’ambiente sociale in cui nasci, cresci e vivi, farà la persona che sei e sarai in futuro. Crescere in un ambiente sereno, ben accudito, ordinato, dove puoi passeggiare in solitaria alle due di notte anche se sei una ragazza e conoscere il vicino di casa e senza aver paura di scendere la rampa dei garage, fa la differenza. Generalmente la vita delle persone che non possono permettersi un alloggio è dura: perché gliela dobbiamo rendere ancora più complicata? Non bastava già una situazione economica lontana dall’essere rosea? Ma no. Continuano a costruire le scatole. Questo sono. Rettangoli allungati dove la sola tinteggiatura dell’intonaco mette tristezza, grigia, come il cuore dell’architetto che l’ha progettata. Popolare deve essere brutto. È un connubio inderogabile. Un legame indissolubile. Un principio cui fare fede. Ma in fin dei conti, chi sono io per poter cambiare quello che da troppo tempo ormai, è asseverato da tutti? In fin dei conti sono solo un povero sognatore. Uno di quelli che è da quattordici anni che lavora nell’edilizia, che conosce benissimo i materiali da costruzione e la progettazione. Basterebbe molto poco affinché si passi da una situazione deplorevole ad una invece dignitosamente piacevole. Ma non riusciamo più a piantare alberi, nemmeno nei quartieri bene in cui le auto si sciolgono al sole nei parcheggi disegnati male e i lampioni fanno da arredo ai giardini piastrellati. Dove dobbiamo ottenere il massimo dalle cubature e dove i servizi più vicini sono a chilometri di distanza, rendendo intere aree densamente popolate unicamnete dei grandi dormitori fini a se stessi. Mi sono dilungato abbastanza. Ora basta. Smettete di fare rumore e abbassate la voce. Il palo vi ha visti: non vorrete passare per quelli che non siete? In fin dei conti, questa è solo l’ennesima storia da non prendere troppo sul serio.